Di alcune virtù dell’esploratore

 di Silvia Pierosara*

Parole-chiave: etica, viaggio, storie, confini, differenza.

Cammino, viaggio, esplorazione. La semantica dell’andare accompagna spesso quella della pratica filosofica: non solo per la meraviglia che accomuna entrambe le esperienze, ma anche per alcune attitudini necessarie al buon esploratore.

Cammino, viaggio, esplorazione. La semantica dell’andare si accompagna spesso a quella della pratica filosofica: fin dal gesto di meraviglia che inaugura il pensare si possono rintracciare analogie tra viaggio ed esperienza filosofica. Più ancora del mero viaggio, il tema dell’esplorazione, forse meno frequentato dai filosofi, chiama in causa particolari virtù che riconducono l’idea di esplorazione entro parametri prettamente etici. 

Una rappresentazione che, per eccellenza, coniuga l’avventura del ragionamento filosofico con quella dell’esplorazione di mondi nuovi è senz’altro il film di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, in cui la meraviglia si fa anche terrore quando la macchina, indispensabile all’umano per compiere la sua esplorazione dei cieli, si ribella e prende il comando. Memorabile quella frase ripetuta da David, il protagonista, con una calma solo apparentemente tale, a Hal, nel momento in cui si rende conto di essere stato chiuso fuori dalla navicella in viaggio proprio da Hal: «Apri la saracinesca esterna, HAL! Mi dispiace David, purtroppo non posso farlo. Addio» (Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio). Questa rappresentazione dell’esplorazione, che un tempo avremmo considerato iperbolica, ma che oggi assume il volto – per alcuni inquietante, per altri stimolante – di uno scenario forse non impossibile, ma anzi praticabile e mercificabile, offre alcune coordinate fondamentali per leggere e vivere il legame tra viaggio e ricerca.

Ogni esplorazione ha a che fare con l’ignoto: si esplora ciò che non si conosce, ciò che sta al di là dei confini praticati e riconosciuti come tali. Si percorre il limite, rispettandolo, sfidandolo, ma sempre con la curiosità del guardare oltre. Di conseguenza, ogni esplorazione richiamerà, parimenti, la questione dei confini. Non si tratta solo di sporgersi al di là degli stessi confini, ma anche di ridisegnarli, stabilirli, per capire dove si rintracci e dove si collochi, di volta in volta, il “passo oltre” dell’esploratore. L’esplorazione si associa quasi immediatamente allo spazio, ma essa può applicarsi anche al tempo: come si esplora il cielo, il mare, le terre sconosciute, così si esplora il tempo, quello passato della memoria e dell’oblio o della nostalgia, quello presente dell’attenzione sempre più fragile e quello futuro dei progetti, delle attese e dei desideri.

Tre storie, diverse tra loro, di altrettanti esploratori narrano di questo “passo oltre”, dicono di un diverso incedere, mostrano l’ambivalenza dell’esplorare insieme all’incanto del viaggiare: Alvise Ca’ Da Mosto; Charles Darwin; Walter Benjamin. Ciascuna di queste biografie può infatti illuminare alcune caratteristiche dell’esplorazione in quanto tale e contribuire a identificare quelle che propongo di definire le “virtù dell’esploratore”, attitudini che si rafforzano con l’esercizio e diventano parte integrante del nostro modo di leggere il mondo e vivere le relazioni, posizionandoci ogni volta in modo diverso dentro l’esperienza dell’ignoto. Proprio alla definizione di tali virtù, o attitudini, saranno dedicate alcune riflessioni al termine di questo breve percorso.

Alvise Ca’ Da Mosto è un esploratore veneziano del XV secolo. Colpisce dei suoi resoconti l’attenzione con cui egli registra impressioni, odori, colori, sapori, usi e tradizioni dei popoli che incontra. Celebre per aver tentato di risalire il fiume Gambia per due volte, la prima da solo e la seconda in compagnia di Antoniotto Usodimare. Alvise appare alla prima impressione come il prototipo della razionalità strumentale e dominativa, che talvolta però non resiste a se stessa, e, a differenza di Ulisse che si fa incatenare per resistere, si lascia incantare dalle spezie e dai loro profumi, dagli strani animali e dalle diverse abitudini dei popoli incontrati. Scrive Alvise a proposito di una popolazione incontrata nella sua prima navigazione: «hanno gran copia di cammelli, e con quelli conducono i rami e argenti dalle Barberie, e altre cose a Tombutto e alle terre de’ Negri; e di là traggono oro e meleghette che conducono di qua» (Alvise Ca’ da Mosto, Le navigazioni atlantiche di Alvise Ca’ da Mosto, a cura di R. Caldeo, Alpes, Milano 1929, p. 186).

Charles Darwin, nel famoso resoconto del suo viaggio intorno al mondo, con queste parole tesse l’elogio dell’esplorare, sottolineando i vantaggi epistemici e morali che il viaggiare offre: «ho troppo profondamente goduto di questo mio viaggio per non spronare ogni naturalista […] ad approfittare d’ogni occasione per intraprendere, se possibile per via di terra, o altrimenti per via di mare un lungo viaggio. Potrà star sicuro che, salvo rari casi, non incontrerà difficoltà o pericoli così brutti come se li figurava prima di partire. Per quanto riguarda gli effetti sul carattere, egli imparerà a pazientare senza perdere il buon umore, a sbarazzarsi dell’egoismo, a far da sé, e a vedere il meglio d’ogni situazione» (C. Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Feltrinelli, Milano 1982, p. 552).

Walter Benjamin, nella sua monumentale opera dedicata alla Parigi del XIX secolo, fa riferimento al flâneur attribuendogli attitudini molto vicine a quelle dell’esploratore: «chi cammina a lungo per le strade senza meta viene colto da un’ebbrezza. Ad ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrots, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo di strada, di una macchia lontana di foglie, del nome di una strada» (W. Benjamin, Il flâneur, in Id., Parigi capitale del XIX secolo. I passages di Parigi, Opere, vol. XI, Einaudi, Torino 1982, p. 544). Un’ebbrezza che l’autore poco dopo definisce anamnestica: lo sguardo si allena a tenere a distanza la fascinazione verso ciò che risulta immediatamente visibile, per perdersi dentro i particolari più insignificanti, le cose più minute. È ancora Benjamin: «L’ozio del flâneur è una dimostrazione contro la divisione del lavoro» (Ivi, p. 557). Sarà la meta a fare l’esploratore oppure la capacità di lasciarsi distrarre dalla meraviglia o dal terrore per ciò che incontra mentre cammina?

A partire dagli esempi sopra riportati, si può forse ipotizzare un elenco di attitudini proprie dell’esploratore, se non di vere e proprie virtù da coltivare per contrastare, oppure incentivare, altre attitudini. Un elenco che, come si vedrà, non è affatto moralmente neutrale. Una delle prime attitudini dell’esploratore è, senz’altro, quella della conquista. Si esplora per conquistare, dominare, talvolta per depredare, storicamente sovente per espropriare. Quest’attitudine risponde al volto dominativo dell’esplorazione, ovvero a quell’istanza di appropriazione che riconduce il conoscere a un potere su altri e considera strumentale la meraviglia del nuovo. A un livello intermedio si colloca proprio l’attitudine del conoscere, con le sue movenze e le sue gradazioni. Come si realizza la conoscenza per un esploratore? Un buon esploratore sa che deve muoversi con circospezione e che per raggiungere l’obiettivo della conoscenza dovrà investigare, spiare, sbirciare, annotare, perimetrare, muoversi in punta di piedi in un mondo non familiare. Il buon esploratore, inoltre, utilizzerà la distanza, il suo essere decentrato, come occasione fondamentale per vedersi da fuori. E, come insegna Benjamin, non avrà paura di perdersi, perché perdersi significa istituire le condizioni di possibilità per meravigliarsi e abbandonare l’equazione presunta tra possedere, controllare e conoscere.

Se queste sono alcune delle attitudini dell’esploratore – attitudini prettamente conoscitive – si possono elencare probabilmente anche alcune sue virtù, ovvero disposizioni che si alimentano con l’esercizio. In questo caso, le virtù sono propriamente etiche, nel senso aristotelico, in quanto si concepiscono come il giusto mezzo fra due opposti atteggiamenti. L’esploratore, allora, sarà virtuoso quando saprà miscelare concentrazione e distrazione, sfatando un mito, fortemente legato alla tradizione filosofica occidentale, per cui alla base delle nostre attività mentali ci sarebbe sempre uno sforzo di concentrazione, di raccoglimento volto a contrastare il vagare distratto e dispersivo dei pensieri. Anche la distrazione, intesa come il vagare con la mente senza uno scopo o un fine immediatamente prestazionale, può essere considerata come una virtù essenziale dell’esploratore. Dell’esploratore è propria anche la passione per il particolare, per il dettaglio: una passione che si dà come giusto mezzo fra la mania collezionistica che si perde nel molteplice e l’astrazione che conduce a ignorare il «minuscolo», il «disadorno». L’esploratore può coltivare anche uno sguardo virtuoso, che è tale quando è candido, discreto, non giudicante e al contempo non indifferente. Così, l’esploratore potrà coltivare una virtù ulteriore, quella di un’apertura all’alterità giocata sull’equilibrio fra curiosità e timore per ogni spazio interstiziale, per ogni margine, per ogni zona di confine. Infine, la virtù forse più rilevante, che ha un potere riassuntivo e riepilogativo rispetto alle precedenti, è costituita dal fine equilibrio – il giusto mezzo – fra il desiderio di conoscenza e quella hybris che contabilizza la meraviglia, ne fa uno strumento di dominio, com’è evidente nelle note riflessioni di Horkheimer e Adorno sulla catastrofe innescata spesso dalla sola ragione strumentale. Il buon esploratore sarà colui che esercita al massimo grado il discernimento fra un’autentica e genuina sete di conoscenza, che conduce alla contaminazione e all’abbandono di un paradigma rigidamente identitario, e, dall’altra parte, una conoscenza che riproduce, legittima e giustifica la sopraffazione e l’oggettivazione dei rapporti tra persona, natura e storia. La storia reale e, purtroppo, in gran parte immaginata delle donne aggiungerebbe forse a quest’elenco la tenacia di chi non si limita ad aspettare i resoconti altrui e rivendica di intraprendere la propria esplorazione, con sguardo accogliente verso una differenza che sa bene di non dover assimilare. 


* Silvia Pierosara, professoressa associata di Filosofia Morale presso l’Università di Macerata. https://docenti.unimc.it/s.pierosara 


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