Per una metafisica immanente

di Paolo Godani*

Parole-chiave: metafisica, indeterminato, individuo, dimostrativo, tratti. 

La filosofia si distingue dalla religione affermando che non esiste al mondo niente di indeterminato e, per conseguenza, di intrinsecamente non-intelligibile. Eppure la stessa filosofia ha spesso fatto spazio, più o meno consapevolmente, all’indeterminato e al non-intelligibile. Ne è un esempio la nozione di sostanza individuale, di cui mostreremo alcuni presupposti, al fine di liberarcene.

Il pensiero filosofico nasce nel momento in cui afferma che l’essere non presenta in sé alcun che di indeterminato.  

Perché la filosofia nasce affermando la determinazione e negando l’indeterminato? Perché l’indeterminato, come la volontà di Dio per Spinoza, è l’asilo dell’ignoranza. 

L’indeterminato è quanto si presenta come di diritto inintelligibile. E se l’essere è inintelligibile, a-logos, il pensiero può continuare a sonnecchiare tra le braccia del mythos, cioè della religione. 

Se viceversa Parmenide può affermare che “lo stesso sono essere e pensare” (B3), è perché l’essere non è un indeterminato, né un inesausto divenire (che è un altro modo per dire indeterminato), bensì una compiuta costellazione di determinazioni. 

Diversamente da quanto afferma la vulgata, ciò che viene stabilito da Parmenide non è la tesi secondo cui “tutto è uno”, ovvero che esiste un solo ente (tesi che è sostenuta semmai da Melisso), bensì la tesi secondo cui ogni cosa che esiste si presenta, di necessità, come perfettamente determinata e indipendente da ogni altra, ovvero si presenta come una differenza in sé (cfr. Patricia Curd, The Legacy of Parmenides, 1998). 

La tesi di Parmenide, la tesi che consente alla filosofia di esistere in quanto tale prendendo le distanze dalla religione, è che qualunque cosa esistente, qualunque ente identificabile è solo e interamente la determinazione qualitativa che la identifica; che tutto quanto può essere considerato come un ente è sempre e soltanto una certa determinazione, una differenza in sé, un’essenza. 

È così stabilita, al contempo, quella che i medievali chiamano “univocità dell’essere”, dato che l’essere si dice solo delle determinazioni. 

Non esiste, cioè, come accade nella metafisica di matrice aristotelica, un sostrato indeterminato x di cui venga poi predicata una certa proprietà, per esempio F, ma ogni x non è mai altro che F, poiché solo F, cioè la determinazione, esiste.   


Come si comprende anche solo dal riferimento che ho appena fatto alla metafisica di matrice aristotelica, la filosofia non è stata sempre fedele alle esigenze della sua origine. 

È accaduto molto di frequente che la metafisica occidentale abbia preso le distanze da Parmenide – e abbia dunque fatto spazio all’indeterminato, all’inintelligibile, all’ineffabile. 

Vorrei considerare un caso, forse il caso esemplare in cui l’ineffabile si è insinuato nel discorso filosofico.  

Il caso in questione è quello della “nozione” di sostanza individuale o, più semplicemente, di individuo. 

Variando una celebre formula di Alexius Meinong, direi che la metafisica occidentale ha sofferto spesso di un pregiudizio in favore dell’individuale

Per chiarire in che cosa consista questo pregiudizio vorrei fare un paio di riferimenti molto classici. 

Buona parte della filosofia medievale è attraversata da quella che gli storici chiamano “disputa sugli universali”. 

È una querelle che divide i contendenti tra coloro che sostengono l’esistenza degli universali, accanto all’esistenza degli individui, e coloro che sostengono invece l’esistenza dei soli individui. 

Questi ultimi sono detti “nominalisti”, perché ritengono che gli universali altro non siano che nomi, a cui non corrisponde nulla di reale “al di fuori dell’intelletto”, mentre i primi sono detti “realisti”, perché attribuiscono una qualche forma di realtà anche agli universali. 

Ricordo questa disputa solo perché mi pare mostri con chiarezza quello che ho chiamato il pregiudizio in favore dell’individuale. 

Tanto i nominalisti quanto i realisti, infatti, condividono l’idea che gli elementi dell’essere siano, fondamentalmente, gli individui. 

Si tratta, in fondo, di una tradizione che ha reso pressoché impensabile qualcosa come una “disputa sugli individui”, cioè una quaestio tra i sostenitori dell’esistenza degli individui e coloro che li ritengano flatus vocis.  

Lungo la storia della filosofia, si trova ribadita mille volte l’idea per cui si sa perfettamente che cosa sia il bianco di questo foglio o chi sia sia Platone, ma non la bianchezza o la platonità. Conosciamo l’individuale, ma non l’universale. 

Eppure vale la pena di domandarsi in che modo veniamo a sapere quale sia la natura di quell’individuo che chiamiamo Platone o il bianco di questo foglio. 

Ora, vale la pena di notare, con Aristotele, che dell’individuo non si può dare scienza, cioè conoscenza stabile e certa. Ecco il mio secondo riferimento classico. 

Mi riferisco a Analitici secondi 31 (87b), dove Aristotele dice che dell’individuo, cioè di un oggetto singolo o di una sostanza individuale, possiamo solo avere sensazione o percezione immediata (quella che Russell chiamerà acquaintance), ma non “scienza” (dato che si ha scienza solo di ciò che si ripete e può dunque venire riconosciuto). 

Così, dell’individuo possiamo conoscere le qualità universali che lo caratterizzano (per esempio di Platone il fatto che è uomo, bianco, saggio etc.), ma non la sua sostanza individuale. 

La situazione, dunque, è questa: da un lato, abbiamo la tesi quasi unanime secondo la quale gli individui costituiscono gli elementi dell’essere – ovvero la tesi per cui essere significa essere un individuo; ma, dall’altro, si ammette candidamente che noi, questi individui che costituiscono la realtà, non li possiamo in alcun modo conoscere, ma di essi possiamo avere soltanto una sorta di intuizione immediata, che è a-logica, pre-discorsiva, insomma ineffabile. 


A questa situazione segue di necessità la nascita di uno dei concetti più bizzarri della metafisica occidentale: quello di sostanza nuda o di bare particular. Vediamo perché e come. 

Abbiamo visto che un individuo può essere caratterizzato dalle sue determinazioni universali (così come Platone è caratterizzato dal fatto di essere uomo, bianco, saggio), ma non si riduce ad esse: è qualcosa di più rispetto agli universali che pure lo definiscono. 

Ebbene, questo qualcosa di più non potrà essere un universale, ma dovrà essere di un altro ordine. Dovrà essere il fatto stesso che un certo individuo è l’individuo che è. 

Platone sarà dunque le sue determinazioni universali più il fatto di essere un mero particolare, una sostanza che, se viene considerata in sé, è nuda, in quanto priva di quegli abiti forniti dagli universali. 

La sostanza nuda è un esempio di quell’indeterminato che, essendo perfettamente inintelligibile, si presenta inevitabilmente come una specie di asilo dell’ignoranza. 


E non si tratta solo di una certa interpretazione di un dettaglio aristotelico, ma di una prospettiva che attraversa l’intera metafisica occidentale. 


La si trova per esempio là dove si stabilisce una sorta di ulteriorità del fatto che una cosa sia, rispetto al che cosa essa è, una ulteriorità del quod rispetto al quid; oppure là dove si stabilisce una precedenza dell’esistenza sull’essenza delle cose (come accade nella corrente di pensiero novecentesca che prende il nome di esistenzialismo). 


Ma torniamo un momento a quella intuizione immediata che sembra consentirci quantomeno di cogliere, anche se non di comprendere, l’individuo in quanto individuo. 

Non mi pare casuale che, da Aristotele a Tommaso e Duns Scoto (ma si potrebbe arrivare sino alla designazione rigida di Kripke), la particolarità della sostanza individuale sia sempre nominata facendo ricorso al dimostrativo: tode ti, materia signata, haecceitas

Questo ricorso al dimostrativo dice, mi pare, qualcosa di molto significativo – che forse ha a che vedere con quello che potremmo chiamare “inconscio metafisico”. 

Dice, cioè, che la metafisica, pur considerando gli individui come sostanze, non ha trovato altro modo, per identificare la loro individualità, che quello di ricorrere alla relazione che tali presunte sostanze individuali intrattengono con il soggetto che le indica dicendo “questo”. 

Sembra che l’unica individuazione possibile sia un’individuazione del tutto estrinseca rispetto alla natura della cosa. 

Verrebbe da chiedersi – ed è per questo che parlavo di inconscio metafisico – se questo stratagemma del ricorso al dimostrativo non sia un’ammissione del fatto che di individui in sé non ne esistono affatto. 


Proviamo allora a prendere sul serio questa idea, apparentemente peregrina, secondo cui gli individui, come tali, non esistono. E facciamolo maneggiando un esempio elementare. 

Ho di fronte a me una tela dipinta di blu. 

È un monocromo del pittore francese Yves Klein. 

Non consideriamo la tela, quanto il blu. Ne siamo autorizzati, fra l’altro, dal fatto che si tratta di una singolare sfumatura di blu, brevettata dallo stesso artista nel 1960 con il nome di International Klein Blue (IKB). 

Ebbene, che oggetto abbiamo di fronte? Che cos’è l’IKB? 

Se teniamo ferma l’ipotesi che la sua individuazione sia puramente estrinseca, non diremo che abbiamo a che fare con un individuo: secondo l’ipotesi, il blu che ho davanti diviene un individuo solo dal momento in cui, indicandolo, dico “questo blu”.  

Ma se l’oggetto che abbiamo davanti non è un individuo, sarà dunque un universale? 

È difficile sostenerlo. Noi non vediamo affatto il blu in generale, ma vediamo questo blu (cioè sempre un certo blu). 

Torno a utilizzare il dimostrativo, ma questa volta lo uso in maniera differente. 

Ora, usando il dimostrativo, non mi riferisco più al blu che ho davanti agli occhi in questo momento (quello che, perciò, Husserl chiama “momento-blu”), bensì a una certa sfumatura di blu, a una singolarità di blu: a quella singolarità di blu che è appunto l’IKB. 

Nonostante Husserl sostenga che noi possiamo avere l’intuizione eidetica del blu in specie, cioè dell’universale-blu, resta il fatto che ciò che vedo con gli occhi del corpo è un certo blu e non il blu in generale. 

Insomma, l’oggetto che abbiamo di fronte, l’IKB, non è né un individuo, né un universale, bensì una singolarità specifica, una specie ultima, una differenza in sé, perfettamente determinata e pertanto distinguibile da ogni altra. 

Potreste obiettare che, comunque, questa singolarità ha la natura di un universale, per la semplice ragione che si ripete in momenti e luoghi differenti, per esempio su una serie di tele (e non solo di tele) firmale da Yves Klein. 

Proporrei allora di considerare questa distinzione: direi che un universale è un concetto che sussume una serie di elementi differenti (per esempio, l’universale-blu sussume le diverse sfumature di blu: blu oltremare, blu cobalto, blu acquamarina etc.), mentre la nostra singolarità di blu si ripete sempre uguale a sé stessa in ogni sua occorrenza (perciò può essere brevettata). 

In conclusione, la mia tesi è che proprio queste singolarità (che non sono né individui né universali) siano gli elementi dell’essere, ovvero che qualunque oggetto concreto non sia altro che una costellazione di singolarità di questo genere. 


Ma vorrei concludere tornando a una considerazione di carattere più generale. 

Si dice spesso, con Deleuze, che la filosofia contemporanea si iscriva sotto l’insegna nietzscheana del “rovesciamento del platonismo”. 

Posso ben ammetterlo, ma precisando che il platonismo si può rovesciare almeno in due modi differenti. 

C’è una sua lectio facilior, che consiste nel dire che rovesciare il platonismo significa liberarsi dal mondo dietro il mondo, dal mondo delle idee o delle essenze fisse ed eterne, restando con questo mondo, che è il mondo il cui non vi è niente di stabile, in cui tutto è in divenire. 

Ma del rovesciamento del platonismo si dà anche una versione meno ovvia, una sua lectio difficilior, secondo la quale è proprio questo mondo che – lungi dall’essere un mondo eracliteo, in continuo divenire – è popolato di essenze fisse ed eterne. È già la lezione di Parmenide, ed è forse anche la lezione megarica. 

Quando per esempio Stilpone di Megara dice che “cavallo è cavallo” e “veloce è veloce” (negando che si possa attribuire un predicato a un soggetto che, in sé, non lo comprende) stabilisce che non esiste un sostrato a cui attribuire le determinazioni, perché solo le determinazioni esistono. È quello che un filosofo francese di fine Ottocento, Octave Hamelin (Sur le De Fato), ha chiamato “lo splendido isolamento di ogni essenza”. 

Anche in questo caso, come in quello dei tratti singolari di cui dicevo prima, bisogna affermare che: 1. gli elementi dell’essere sono di un solo tipo (e non di due, come nell’aristotelismo); 2. gli elementi dell’essere non sono sostanze nude, bensì determinazioni qualitative o essenze. 

È un altro modo di rovesciare il platonismo, perché stabilisce che esista un solo mondo, questo, ma precisa che proprio questo mondo è popolato di essenze stabili ed eterne. È questa dottrina che credo meriti il nome di metafisica immanente


* Paolo Godani insegna Estetica all'Università di Macerata (https://docenti.unimc.it/paolo.godani). È autore tra l'altro di Traits. Une métaphysique du singulier, PUF 2020; Il corpo e il cosmo. Per una archeologia della persona, Neri Pozza 2021; Melanconia e fine del mondo, Feltrinelli 2025.

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