di Carla Danani*
Parole-chiave: ecologia, filosofia, intersezionalità, giustizia, relazionalità
Uno sguardo filosofico sull'ecologia consente il passaggio da una prospettiva emergenziale a una comprensione reale.
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La
filosofia ha, tra i suoi compiti, di riprendere sempre a pensare ciò che viene
considerato ovvio, persino banale. Ecologia è certo oggi uno di questi
concetti: circola come moneta corrente, anche un po’ inflazionata: talvolta in
una ambiguità accomodante che ne disinnesca il profondo potenziale di senso, in
altri casi maneggiata con un purismo ai limiti tra l’ingenuo e
l’irresponsabile.
Da
quando Ernst Heinrich Haeckel, nel 1866, ha introdotto il concetto (Ökologie)
nel panorama scientifico, il tema ha attirato in effetti l’interesse di
studiosi provenienti da differenti aree disciplinari. Ben al di là delle prime
definizioni – sulla base del nome, che farebbe
riferimento sia all’ambiente di vita (dal greco oikos = casa) sia al
concetto di “economia della natura” (già proposto da Linneo e poi ripreso da
Darwin e Thomas Huxley per indicare l'insieme dei rapporti tra le specie e il
loro ambiente) – se ne occupano oggi non solo la biologia, la botanica,
la zoologia, la chimica, ma anche l’economia, la cibernetica e la sociologia. Fino
a qualche anno fa popolava i discorsi dei politici, poi – nonostante gli anni
della pandemia – con le vicende belliche che hanno messo in discussione gli
approvvigionamenti energetici, è diventata parola reietta.
Sempre
più, nei decenni precedenti, il tema aveva già coinvolto anche la letteratura.
In Italia si possono ricordare i nomi di Italo Calvino o di Mario Rigoni Stern.
In ambito linguistico anglofono, agli inizi degli anni Novanta, si era
sviluppato il cosiddetto Ecocriticism: che se all’inizio riguardava
varie forme di “nature writing” (ad esempio il romanzo della wilderness, la
poesia della natura), successivamente dette valore a qualsiasi contesto
ambientale con l’obiettivo di ispirare nei lettori la consapevolezza dell’interdipendenza
tra le varie forme di vita. La letteratura aveva certo, così, saputo
risvegliare in una parte consistente dell’opinione pubblica la consapevolezza
che l’ecologia non è questione solo delle discipline scientifico-naturalistiche
o delegabile alla tecnologia.
Per la filosofia, a propria volta, si tratta di un tema coltivato da lunga data: basti ricordare le considerazioni sulla physis che datano fin da coloro che vengono chiamati i Presocratici, ma anche le riflessioni sul bios, e quelle sul poliedrico e ritornante tema della natura, che in modo persistente dal Rinascimento attraversa l’età moderna, fino alla consapevolezza della possibilità di incidere in modo essenziale su di essa, grazie alle più recenti tecnologie. La filosofia, nella trama di questa concettualità, ha certo una notevole cassetta degli attrezzi per mettere in luce innanzitutto la complessità poliedrica della questione, per vincere il rischio di una sua evaporazione per eccesso di confusione, per comporre i molti saperi che ne affrontano aspetti specifici. Può mostrare che essa riguarda questioni di ontologia, ovvero circa “che cosa è, ciò che è in gioco”, di antropologia, cioè l’autointerpretarsi dell’essere umano nella propria relazione con il mondo, di etica, perché concerne i modi di intendere e praticare buoni rapporti con l’ambiente che si abita, di politica, in quanto ci sono decisioni che qualcuno prende e un’agenda da definire. Essa, inoltre, sapendo rinunciare agli specialismi e avendo a cura l’intero, può metterne in vigore l’essenziale carattere di intersezionalità. Le questioni ecologiche, infatti, non sono riducibili alle alterazioni dei rapporti naturali: i problemi ambientali sono strettamente legati alle disuguaglianze sociali, economiche, politiche e, spesso, i più vulnerabili sono i gruppi marginalizzati.
Critica
di ogni indulgenza a modi di pensare solamente compositivi, la filosofia è il
luogo dove l’ecologia può essere compresa come specchio della complessità del
reale. Si decostruiscono, così, alcune cristallizzazioni del linguaggio, come
quando si parla troppo facilmente di “disastri naturali”. Come, ad esempio, ha
mostrato la ricerca di Eric Klinenberg – che ha analizzato l’ondata di calore
di Chicago nel 1995, in occasione della quale morirono 739 persone – questo
termine è spesso improprio. L’ondata di calore ebbe quegli effetti in virtù
della combinazione del fenomeno climatico con la mancanza di relazioni sociali
(isolamento), con la mancanza di controllo sul proprio ambiente (di notte, le
persone che abitavano in zone pericolose non aprivano, per paura, le finestre),
con la mancanza di capacità di comprendere, di immaginare e di riflettere (ad
esempio le news in televisione). I soggetti più esposti e fragili subirono i
maggiori danni: le loro condizioni si rivelarono “svantaggi corrosivi” (per
usare un’espressione dell’illuminante testo di C. Wolff e A. de Shalit, Disadvantage). Lo sguardo filosofico
riesce allora a decostruire anche i troppo strumentali elogi della capacità di
affrontare le difficoltà: quando si parla di resilienza e non ci si interroga
sulle condizioni in cui i soggetti sono costretti a essere tali. Tracie
Washington, Presidente del Louisiana Justice Institute, anni fa lanciò una
campagna pubblica, in tutta New Orleans, al motto Stop calling me resilient, contestando il continuo elogio rivolto
da media e politici alla sua comunità per la resilienza dimostrata sia in
occasione dell’uragano Katrina sia della fuoriuscita del petrolio della BP. Rilevava:
“Ogni volta che si dice: ‘Oh, sono resilienti, [in realtà] significa che si può
fare qualcos’altro, [qualcosa] di nuovo per [la mia comunità].… Non siamo nati per
essere resilienti; siamo costretti ad essere resilienti. Non voglio essere resiliente…
[Voglio, in primo luogo] sistemare le cose che [creano la necessità per noi] di
essere resilienti”. Sembra non avere tutti i torti, se si pensa che il
Rockefeller Foundation’s City Resilience Index definisce la resilienza di una
città come la sua capacità “di funzionare, in modo che le persone che vi vivono
e lavorano – in particolare i poveri e i vulnerabili – sopravvivano e prosperino
indipendentemente dallo stress o dagli shock che incontrano” (su questo M. Kaika,
Don’t call me Resilient again! The New Urban Agenda as Immunology… or what happens when
Communities refuse to be vaccinated with ‘Smart Cities’ and Indicators, in
«Environment and Urbanization», 2017, XXIX, 1, pp. 89-102).
Nella propria movenza fondativa e di ripresa critica, la comprensione filosofica consente
il rilievo “interale” e non emergenziale della “questione ecologica”. Non
suggerisce certo di trascurare le pratiche, ma invita a riportarle all’altezza
del senso, suggerisce un cambiamento di paradigma nel pensare e nell’agire. Non basta, infatti, una “transizione ecologica”,
se con questo termine si intende l’acquisizione di una logica di aggiustamento,
di assestamento, che si traduce in mitigazioni, compensazioni e affidamenti
alle soluzioni tecnologiche. Secondo la definizione della Treccani (https://www.treccani.it/vocabolario/transizione-ecologica_(Neologismi)/) la transizione ecologica sarebbe:
“1. Processo tramite il quale le società umane si relazionano con l’ambiente
fisico, puntando a relazioni più equilibrate e armoniose nell’ambito degli
ecosistemi locali e globali. 2. In senso più limitato e concreto, processo di
riconversione tecnologica finalizzato a produrre meno sostanze inquinanti”. Urge
un altro orizzonte: una “conversione”, come sosteneva (inascoltato) Alex Langer
nel 1994 ma, anche, Francesco
d’Assisi, che pure già aveva invitato a considerare «una sana relazione col
creato come una dimensione della conversione integrale della persona».
Bisogna
accorgersi che le convinzioni circa “che cosa è e come è ciò che esiste” sono gravide
di conseguenze: una ontologia dell’estraneità fra mondo umano e mondo naturale,
ad esempio, non può che intendere come accidentali le connessioni che comunque
si presentano nell’esperienza e, su questa base, orienta le credenze in senso
disgiuntivo, atomistico, mentre indirizza la disposizione pratica secondo
declinazioni strumentali, utilitaristiche. Ben diversamente vanno le cose con
un’ontologia della relazionalità, capace di cogliere il profondo legame tra
l’essere umano e il mondo che abita e di cui vive, di pensare l’intrinseca
relazionalità dell’umano con gli altri esseri viventi, come anche la sua
implicazione con il mondo inorganico, senza per questo doverne negare
l’eccedenza e revocarne la responsabilità. Tale orizzonte può aprire vie
inedite per un abitare ecologico e offrire all’essere umano ragioni per
ripensarsi, reinterpretarsi e comprendere più a fondo sé stesso. La
preoccupazione etica non resta allora sguardo esterno: certo può assumere
diversi timbri, ma disfa le ragioni di qualsiasi forma di antropocentrismo
dominativo, rilevando una differenza dell’umano che non ne tradisce la
terrestrità. L’agenda delle questioni operative si raccorda, allora, in un
orizzonte di intersezionalità che non solo non le rende meno concrete, ma ne
contesta gerarchie opportuniste e strumentalizzazioni: decarbonizzazione, mobilità sostenibile, contrasto al consumo di suolo e
al dissesto idrogeologico, tutela delle risorse idriche e delle loro
infrastrutture, ripristino e rafforzamento della biodiversità, tutela e
sviluppo del mare, promozione dell’economia circolare, della bioeconomia e
della agricoltura sostenibile, ottimizzazione della gestione dei rifiuti,
misure di giustizia sociale, lotta alle povertà e alle disuguaglianze, sostegno
all’accoglienza, eliminazione delle discriminazioni di genere, promozione di
una cultura della pace, riconoscimento dei popoli nativi, promozione di
relazioni di non sfruttamento verso la natura non sono le questioni del futuro,
ma del presente.
È urgente
pensare a fondo l’ecologia come cura della casa comune. Nella consapevolezza e nella
partecipazione da parte di tutte e tutti, per un mondo senza scarti.
*Carla Danani è docente di Filosofia Morale all’Università di Macerata; qui insegna anche Filosofia Politica, Filosofia dell’Abitare ed Etica dell’ambiente digitale. Dirige la Scuola di Studi Superiori “G. Leopardi" (https://docenti.unimc.it/carla.danani)
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