di Francesco Orilia*
Parole-chiave: niente, essere, esistenza, Heidegger, Carnap.
Per Heidegger il niente nienteggia e per Carnap questa affermazione è priva di senso. La contesa è un momento significativo del percorso che divide filosofia analitica e continentale e rivisitarla è istruttivo. Heidegger ripropone anche la fondamentale domanda di Leibniz: perché c’è qualcosa piuttosto che niente? Carnap presuppone l’impostazione logica ereditata da Frege e Russell. Questa permette grande chiarezza concettuale, ma ha dei punti deboli nell’inquadrare le due alternative del quesito leibniziano. Nel provare a rimediare si può tentare anche una reinterpretazione della frase di Heidegger.
Carnap e Heidegger si incontrarono e conversarono di filosofia e della nuova logica di Frege e Russell durante un importante convegno a Davos nel 1929, punto di svolta nel percorso che porta alla biforcazione tra analitici e continentali (M. Friedman, La filosofia al bivio, 2004). Poco dopo, in Was ist Metaphysik? (1929), Heidegger discusse di essere e niente adombrando un dissolvimento della logica e culminando con il niente nienteggia (Das Nichts selbst nicthet). In “Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache” (Erkenntnis, 1932), Carnap replicò che questa e analoghe affermazioni di quello scritto sono insensate.
Carnap assumeva dalla nuova logica l’approccio ad essere ed esistenza tuttora standard nella filosofia analitica, secondo il quale queste due nozioni coincidono e sono espresse dal quantificatore esistenziale della logica, il simbolo “∃”, che rende anche “qualcosa”. Sicché, “c’è un cavallo”, “esiste un cavallo,” “qualcosa è un cavallo”, “∃x(x è cavallo)” significano la stessa cosa, e quando diciamo, per esempio, “Trump esiste” affermiamo “c’è qualcosa a cui Trump è identico,” ossia “∃x(x = Trump)”. Inoltre, il senso di “niente” è colto dal quantificatore esistenziale preceduto dalla negazione, simboleggiata da “~”. Per esempio, “niente è un unicorno” equivale a “~∃x(x è unicorno)”, ossia “non c’è un unicorno”. Quindi, in “il niente nienteggia”, c’è assenza di senso per questo errore sintattico: “niente” non vi figura come un quantificatore negato, ma come se fosse un nome proprio, analogo a quello di una frase quale “Pietro corre”. C’è poi un errore semantico: “nienteggia” non esprime alcun significato. In un’appendice a Einführung in die Metaphysik (1935), Heidegger reagisce con un’invettiva al vetriolo contro Carnap, ribadendo la sua avversione alla logica.
Gli analitici tendenzialmente vedono in Carnap un chiaro vincitore del dibattito, così come vedono in Russell il vincitore del suo dibattito con Meinong sugli oggetti inesistenti agli albori del Novecento. Per Meinong ci sono oggetti che non esistono, sia possibili come il cavallo alato, che impossibili, come il quadrato rotondo. Per Russell, questo è inammissibile, data la coincidenza di essere ed esistenza, e comunque la teoria di Meinong porta a contraddizioni. Alcuni analitici però si sono schierati con Meinong a partire dagli anni Settanta ricostruendo su basi logiche più salde il suo approccio (F. Berto, L’esistenza non è logica, 2010). Di recente un altro analitico, Alberto Voltolini (Down but not out, 2022) ha sostenuto che anche il dibattito Heidegger-Carnap sia da riconsiderare: Heidegger non commetterebbe veramente l’errore sintattico, perché usa “il niente” con l’articolo determinativo, ossia come una descrizione definita e quindi come un termine singolare paragonabile a un nome proprio. Inoltre, secondo Voltolini, un significato per “nienteggia” si può trovare e questa è la sua proposta: esprime la proprietà non essere identico a niente, ossia essere un x tale che non c’è un y che identico a x. E questa stessa proprietà sarebbe espressa dalla parola “niente” presente nella descrizione definita “il niente”. Sicché la frase di Heidegger diventa “l’identico a niente è identico a niente”. Applicando l’analisi russelliana delle descrizioni definite, che è parte dell’approccio standard, questo significa: c’è (esiste) esattamente un x identico a niente e tale x è identico a niente. Qui “niente” va inteso come quantificatore esistenziale negato, nel senso visto sopra, il che rende l’affermazione falsa perché contraddittoria, dal punto di vista dell’approccio standard. Tuttavia, insiste Voltolini, non priva di senso. Inoltre, se abbandoniamo l’approccio standard e abbracciamo quello meinonghiano, la frase di Heidegger sarebbe addirittura vera: l’identico a niente sarebbe un inesistente impossibile, ma che tuttavia c’è, come il quadrato rotondo. E così come il quadrato rotondo è rotondo, l’identico a niente è identico a niente.
Ma davvero Heidegger non commette l’errore sintattico? Certamente usa spesso l’articolo determinativo e questo suggerisce che non lo commette, ma talvolta non lo usa, in particolare quando alla fine del saggio ripropone la nota domanda di Leibniz: perché c’è qualcosa piuttosto che niente?
Questa domanda pone un problema per l’approccio standard presupposto da Carnap. Le due alternative del dilemma sono “c’è qualcosa” e “non c’è niente” (l’italiano richiede un “non” pleonastico). La prima è vera e la seconda falsa. Però si tratta di una verità e di una falsità (almeno a prima vista) non necessarie ma contingenti: ci guardiamo intorno e vediamo che qualcosa c’è, i mari, i monti, il sole, la luna, noi stessi; però avrebbe potuto non esserci niente di tutto questo, anzi niente proprio, il che fa sorgere la domanda di Leibniz. Invece per l’approccio standard la prima alternativa è banalmente necessaria e la seconda banalmente impossibile. Questo perché, alla luce di quanto visto sopra su come intendere “c’è”, “esiste” e “qualcosa”, la prima alternativa afferma che qualcosa esiste, cioè che c’è qualcosa di identico a qualcosa, ossia ∃x∃y(x = y). E questa per l’approccio standard è una banale verità logica, che si dimostra a partire dalla legge di autoidentità, a = a: si inferisce prima ∃y(a = y), ossia a esiste, e poi ∃x∃y(x = y), ossia qualcosa esiste (analogamente, da Giovanni ama Maria si inferisce che ∃x∃y(x ama y)). La seconda alternativa è poi semplicemente la negazione della prima e quindi è una banale contraddizione.
Nell’approccio standard è addirittura una verità logica che tutto esiste. Ci possiamo arrivare ancora da a = a: dopo averne inferito che a esiste, come visto sopra, poiché “a” è un termine arbitrariamente scelto, possiamo generalizzare: tutto esiste [coi simboli logici: ∀y∃x(y = x)]. Tutto esiste equivale a non c’è qualcosa che non esiste, proprio quanto rivendicato da Russell contro Meinong. L’approccio standard dovrebbe dunque accettare senza problemi che tutto esiste. Ma un problema c’è, perché tutto esiste presta immediatamente il fianco a controesempi: il cavallo alato e il quadrato rotondo non esistono.
Si potrebbe allora essere tentati di saltare dall’approccio standard a quello meinonghiano: si spezza l’identità di significato tra “c’è” ed “esiste” e si ammette che ci sono oggetti che non esistono. Fatta questa mossa, possiamo poi leggere il dilemma leibniziano come riguardante l’esistenza: perché esiste qualcosa piuttosto che niente? E qui la prima alternativa si può vedere come contingentemente vera e la seconda come contingentemente falsa.
C’è però un’altra opzione che vorrei invece caldeggiare, che permette di rimanere nell’approccio standard, aggiungendo delle risorse che ci aiutano. Sono i concetti denotanti, che Russell ammetteva nei Principles of Mathematics (1903) (N.B. Cocchiarella, “Conceptualism, Realism and Intensional Logic”, Topoi, 1989). Sono concetti peculiari che fungono da significati per sintagmi nominali quali “qualche uomo”, “ogni cane”, “il cavallo alato” e anche “niente”. Li predichiamo di proprietà quando diciamo per esempio che il cavallo alato è bianco o che niente è sia quadrato che rotondo, ma ne possiamo anche parlare attribuendo loro delle proprietà, come quando diciamo che il concetto denotante il cavallo alato coinvolge le proprietà cavallo e alato. Le attribuzioni di esistenza o non-esistenza di frasi come “il cavallo alato (non) esiste” riguardano concetti denotanti di questo tipo, individuali, quelli che esprimiamo con l’articolo determinativo. Pur riguardando questi concetti, tali attribuzioni vanno viste come logicamente equivalenti a quelle dell’approccio standard. Per esempio, il cavallo alato esiste equivale a c’è esattamente un x che è cavallo alato, ed è quindi falso. E d’altra parte il cavallo alato non esiste equivale a non c’è esattamente un x che è cavallo alato, ed è quindi vero. Tutto esiste è allora falso, mentre vero è invece ci sono cose che non esistono. E analogamente qualcosa esiste è contingentemente vero e niente esiste è contingentemente falso. Tutto ciò, purché queste affermazioni si intendano come riguardanti concetti denotanti individuali.
In generale, i concetti denotanti individuali possono svolgere gli stessi ruoli teorici svolti dagli oggetti meinonghiani: laddove un meinonghiano invocherebbe oggetti meinonghiani, nell’approccio standard possiamo invocare concetti denotanti. Ma ci sono altri concetti denotanti oltre a quelli individuali. In particolare, c’è il concetto denotante espresso da “niente”. Predicarlo di una proprietà equivale a dire che non c’è qualcosa che esemplifica quella proprietà. Per esempio, se affermo niente è unicorno dico qualcosa di equivalente a non c’è un x tale che x è unicorno. Questo suggerisce che il concetto denotante niente è il concetto non esemplificata da alcunché, un concetto che predichiamo veridicamente della proprietà unicorno e falsamente della proprietà cavallo. Si tratta di un concetto che coinvolge la negazione: riguarda la non-esemplificazione. E questo suggerisce un modo alternativo a quello di Voltolini di leggere il “nichtet” della frase di Heidegger: “coinvolge la negazione” piuttosto che “nienteggia”. In fondo Heidegger trasforma in un verbo, “nichtet”, la negazione “nicht”, non la parola equivalente a “niente”, ossia “Nichts”. Seguendo questa linea intendiamo così la frase di Heidegger: il concetto denotante nulla coinvolge la negazione. In generale, la riflessione di Heidegger sul nulla diventa una riflessione sul concetto denotante niente piuttosto che su qualcosa che si contrappone all’essere. Non ci può essere questo qualcosa, ma ci può ben essere questo concetto. Se riflettere su di esso possa avere i risvolti emotivi evocati da Heidegger è un’altra questione.
Si possono ascoltare ulteriori dettagli nella conferenza che ho tenuto a Torino il 10/12/24, qui disponibile: https://unito.webex.com/recordingservice/sites/unito/recording/1df241d79923103d83f9d6d646aeb383/playback
* Francesco Orilia è professore ordinario di Filosofia e Teoria dei Linguaggi nella classe delle lauree in filosofia dell’università di Macerata (https://docenti.unimc.it/francesco.orilia). I suoi principali interessi di ricerca riguardano la teoria del riferimento, la filosofia della logica, l’ontologia analitica e la filosofia del tempo.
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