Dove muore la speranza

 di Luigi Alici*

Parole chiave: speranza, guerra, cristianesimo, Bloch, Habermas.

Il contrasto tra disperazione e speranza, plasticamente rappresentato dalla celebrazione cristiana del Giubileo in un tempo di guerra e di violenza diffusa, chiama in causa la possibilità di un ripensamento della forza sovversiva della speranza, umana e cristiana, reso possibile anche da un confronto storico con il secondo dopoguerra.



È davvero singolare che un miliardo e 405 milioni circa di cattolici nel mondo si trovino a celebrare il Giubileo della speranza in un tempo di disperazione. Potremmo anche dire: un anno di grazia in un tempo di disgrazia. L’aspetto forse più paradossale di questo contrasto non consiste soltanto nel fatto che l’equilibrio mondiale di guerra e pace, continuamente precario, sia sempre più sbilanciato pericolosamente verso le guerre, in senso letterale (guerre tra eserciti, e addirittura tra eserciti e popolazioni civili) e traslato (sfrenate competizioni finanziarie e commerciali, attacchi unilaterali all’equilibrio della biosfera, divaricazione crescente degli squilibri e delle ingiustizie sociali, delegittimazione esplicita di organismi transnazionali, violenza interpersonale nella rete dei “rapporti corti”…). Oltre a questo, l’autoaffermazione di poteri (visibili e invisibili) non viene più accreditata secondo una deriva secolarista, che nella modernità s’era affermata semplicemente privatizzando ed emarginando il fattore religioso: al contrario, le religioni – non solo l’Islam, ma anche l’Ebraismo e il Cristianesimo – tornano (nel modo peggiore) al centro della scena, usate come un nuovo instrumentum regni, assecondando pulsioni fondamentaliste e teocratiche che non avremmo mai immaginato di rivedere.

Questo scenario sembra spingere la dimensione religiosa di fronte a una falsa alternativa fra un arroccamento dentro frontiere “identitarie”, prodotte da una miscela avvelenata di paura e intolleranza, e all’opposto una fede intimistica e indolore, compatibile con qualsiasi assetto sociale, economico, politico e culturale. Mentre nel primo caso si preferisce imboccare la strada che enfatizza il mistero del male, usando la paura del nemico per esasperare un torbido pretesto securitario, nel secondo il richiamo alla speranza, connesso all’evento giubilare, rischia di ridursi a un vago appello spiritualistico, che ne vanifica la densità teologale e ne smarrisce la pertinenza antropologica.

Eppure, per andare oltre questa divaricazione, basterebbe un confronto, anche sommario, con un’altra stagione storica, per riconoscere che si può dare della speranza, umana e cristiana, una lettura molto diversa. Anche lo scenario sociale e politico del secondo dopoguerra nel mondo occidentale, fino all’incirca negli anni ’60, è stato segnato da una forte polarizzazione di luci e ombre, avendo messo a nudo la follia distruttiva dei totalitarismi, ammantata di deliranti ideologie nazionaliste e razziste, e nello stesso tempo ha legittimato una corsa agli armamenti e alla proliferazione più o meno controllata degli arsenali nucleari.

Uno scenario non troppo dissimile da quello odierno, con qualche differenza fondamentale, però: ieri i popoli avevano riconosciuto, condannato e combattuto alcuni pericoli e la democrazia era riuscita a mettere sotto pressione la politica, dando vita a nuove organizzazioni internazionali e transnazionali, come l’ONU, con tutta una costellazione di apparati complementari che si sono fatti carico a livello globale della fame, della salute, dell’infanzia. Era stato messo in moto, sia pure troppo lentamente, il processo di unificazione europea, che in ogni caso ha portato la pace proprio nel luogo endemico in cui covava da secoli il virus della guerra. Era nato un embrione di opinione pubblica mondiale, che contestava la corsa al nucleare, condannando il razzismo e l’apartheid che lo teneva in vita. Basterebbe ricordare qualche data: nel 1963 Martin Luther King tiene il suo celebre discorso "I Have a Dream", durante la marcia su Washington per il lavoro e la libertà, e papa Giovanni XXIII pubblica l’enciclica “Pacem in terris”, una svolta che sta dentro la svolta ancora più grande del Concilio ecumenico Vaticano II (1962-65). Il 1968, quindi, è segnato dalla “primavera” di Praga e dalla contestazione giovanile.

Per di più, a differenza di oggi, quel processo era stato accompagnato costantemente sul piano culturale. Già nel 1944 Gabriel Marcel aveva pubblicato Homo Viator, con il sottotitolo Prolegomeni a una metafisica della speranza, che rileggeva in chiave esistenziale il messaggio cristiano della speranza. Ma forse l’evento editoriale più rilevante è stata la grande opera in tre volumi di Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung, che appare tra il 1954 e il 1959. Dopo aver distinto nettamente nel marxismo contemporaneo una “corrente fredda”, interpretata dal marxismo-leninismo e caratterizzata dalla dottrina del materialismo dialettico, e una “corrente calda”, rappresentata dall’umanesimo marxista, che ne accentua il lato utopico e profetico, Bloch prende le distanze dall’idea marxiana della religione come oppio, valorizzando invece il carattere dirompente di un messianismo umano-escatologico. Presenterà quindi, successivamente, una “lettura atea del cristianesimo” (Ateismo nel Cristianesimo, 1968), con l’intento di recuperarne l’eredità più viva traducendola in una “speranza eretica che cammina con piedi umani”, e riassumendola in una “ontologia del non-essere-ancora” capace di riconsiderare l’intero tessuto storico come grembo di possibilità illimitate.

Ed anche se Bloch riconosce il futuro dell’homo absconditus solo in un “trascendere senza trascendenza” che limita alla storia la sua unica possibilità di incarnazione, ormai erano state poste le basi di un nuovo dialogo. Il rilancio di tale dialogo avverrà soprattutto grazie al teologo protestante Jürgen Moltmann, che pubblica nel 1964 Teologia della speranza, mettendo in guardia contro ogni tentativo di allontanare troppo dalla storia gli eventi ultimi, privandoli del loro “significato di orientamento, di incoraggiamento e di distanza critica nei confronti dei giorni che si vivono qui sulla terra”.

Rispetto a quello scenario, la situazione odierna appare orfana di quel grande dibattito e della tensione storica che l’aveva suscitato. L’11 settembre 2001, con gli attacchi alle Twin Towers e al Pentagono, ha segnato il crollo del mito della sicurezza dell’Occidente, a cui è seguita solo una risposta di tipo securitario; la crisi finanziaria di pochi anni dopo ha smascherato la convinzione, sbandierata da un certo liberismo, che la marea che sale solleva davvero tutte le barche; il fallimento della primavera araba del 2010 ha favorito la ripresa impetuosa dell’immigrazione; l’emergenza pandemica ha accentuato la contrapposizione fra libertà individuali e responsabilità pubbliche, in uno scenario di democrazia debole che ha scatenato pulsioni autoritarie e nuove guerre di conquista (non solo in Ucraina e a Gaza); una crescita incontrollata dell’IA prelude a nuove forme di neocolonialismo tecnologico. Dentro questo scenario, la crisi forse più grave a livello geopolitico è in mano alla leadership mondiale forse più mediocre, mentre la rete cavalca una nuova polarizzazione ideologica, dove l’immediatezza viscerale non sembra molto amica né dei processi di laboriosa partecipazione ed elaborazione democratica né della fatica dialogica del pensare.

Come si può spezzare questa falsa alternativa tra speranza debole e nuovi poteri forti? Una risposta ci viene, paradossalmente, da un vecchio laico come Jürgen Habermas, il quale, nella monumentale storia della filosofia in tre volumi, pubblicata nel 2019 (all’età di novant’anni!) sviluppa due tesi che incrociano il nostro tema. Nel primo volume, da un lato egli mette l’accento sul radicalizzarsi di un conflitto strutturale nell’epoca della globalizzazione: quando si riconosce che la propria vita dipende sempre più dalla cooperazione con gli altri, “gli individui devono prendere atto che la loro autoconservazione è intrecciata con le sorti del collettivo”; in mancanza di una accettazione convinta della dimensione sociale, ne risulta una tensione latente tra l’egocentrismo dell’autoaffermazione e la sottomissione richiesta al singolo dagli imperativi della società.

Da un altro lato, Habermas ricorda che anche in un contesto secolarizzato, “la modernizzazione sociale non deve comportare necessariamente la perdita di significato della religione quale forma contemporanea dello spirito – né nella sfera pubblica politica e nella cultura di una società né nella condotta di vita personale del singolo”. In particolare, nell’epoca dell’onnipotenza delle tecnologie e dell’impotenza della politica, le religioni possono riacquistare nuova centralità come “comunità globali”, oltrepassando il loro originario ambiente di civilizzazione, purché non rinuncino al proprio potenziale cognitivo (questo è il punto), recuperandone, grazie a una traduzione ermeneutica, i contenuti di fondo come “discorsi capaci di verità universalmente accessibili” e accettando le regole che lo Stato costituzionale democratico stabilisce per l’uso pubblico della ragione. In questo modo tali contenuti possono essere impegnati nella ricerca di risposte in chiave di solidarietà universale alle grandi sfide che investono le questioni dell’autocomprensione e dell’integrazione sociale.

Il messaggio che il vecchio pensatore laico ci affida è coraggioso e provocatorio: i cristiani non devono preoccuparsi (sol)tanto delle chiese vuote, quanto piuttosto dei pensieri chiusi e delle relazioni corte. Non siamo troppo lontano dall’invito di papa Francesco a farci carico della crisi planetaria (Laudato si’) e a universalizzare la fraternità (Fratelli tutti). Un invito che possiamo intendere anche come promozione di un rinnovato dialogo fra speranza cristiana e speranza umana, che ne valorizzi l’apertura storica e la forza sovversiva e generativa. Una speranza aperta alla trascendenza è sovversiva nel senso che sovverte dalle fondamenta ogni forma di disordine scientificamente organizzato. La trascendenza non è nemica della storia. Può esserne anzi la sua migliore alleata, soprattutto quando aiuta a liberarci di una storia soffocata da assoluti terrestri. Il cattivo infinito è il peggior nemico della nostra finitezza.

* Luigi Alici è professore emerito di Filosofia Morale all’Università di Macerata. Studioso di Agostino, ha posto al centro delle sue ricerche più recenti i temi della fragilità e della cura, oltre al rapporto tra natura, tecnologia e libertà. Fra le sue ultime pubblicazioni: Liberi tutti. Il bene, la vita, i legami (Vita e Pensiero, 2022); Natura e persona nella crisi planetaria (Castelvecchi, 2023, Premio “Parco Maiella”). Ha curato, in coll. con D. Pagliacci, Tempo della cura, cura del tempo. Del vivere e del morire (Mimesis, 2024). https://docenti.unimc.it/luigi.alici#content=info-and-bio



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